Il film di Anton Corbijn è incentrato sulla figura di Ian Curtis ancor prima che sui Joy Division e l'aspetto musicale. La collaborazione alla sceneggiatura della moglie Deborah e dell'amante belga Annik, hanno contribuito alla creazione di un personaggio convincente, ben interpretato anche nelle scene concertistiche dal quasi sosia Sam Riley. Non mancano però i "contro".
Il neo-regista conosceva di persona i Joy Division, essendosi trasferito in Inghilterra a metà 70s, seguendoli e fotografandoli on stage. Corbijn non ha avuto dubbi nell'optare sul bianco e nero, una gamma di grigi che ben rappresentavano i ricordi di quell'Inghilterra e i sentimenti di Curtis. La fisionomia del quartetto di attori della band è molto simile agli originari, inoltre sapendo suonare e cantare, hanno interpretato loro stessi la musica, sciogliendo il dubbio del regista sull'impiegare o meno i pezzi originali.
Lo svolgimento va dal 1973 fino al tragico epilogo del 1980, i fatti son noti. Le prime infatuazioni di Curtis con Bowie e Lou Reed, la folgorazione avuta al concerto dei Sex Pistols a Manchester, i Warsaw, la Factory, le canzoni immortali. Non trattandosi di un documentario musicale c'era da aspettarsi il mettere in secondo piano certi aspetti, eppure trattare così rapidamente la fase fondamentale dei Warsaw e la quasi totale mancanza nello svolgimento del film di idee di partenza sulla musica, confinata alle rappresentazioni dal vivo, lascia un pò l'amaro in bocca. Anche la fascinazione sulla allora discussa simbologia viene un pò trascurata, a parte un "Non siamo nazisti". A tratti se non fosse per le ruffiane locandine di concerti messe sui muri non sembrerebbe affatto di rivivere un momento importante della storia musicale inglese di fine 70s, ma perlomeno si citano i concittadini Buzzcocks. Non così per i testi, che sono stati il punto di partenza per la creazione dell'aura del film e del modo di porsi dell'epigono Riley, e che ricorreranno durante la pellicola.
Chi ha letto la biografia di Deborah Curtis "Così vicino, così lontano" troverà punti di contatto. Il Curtis stralunato, apatico, tormentato, affettivamente ora distante poi conciliante. Un travaglio interiore in cui ebbe un ruolo fondamentale l'epilessia, vissuta da Ian con crescente preoccupazione, di pari passo all'impreparazione psicologica dinnanzi alla nascita della figlia. Una mente non facilmente penetrabile sullo sfondo di una semplicità di vita comune a milioni di altri, un ragazzo confinato nella sua tenera ma marmorea incomunicabilità.
Dal punto di vista prettamente cinematografico non si tratta di nulla di memorabile, tecnicamente ho trovato più interessante il recente "Io non sono qui" dedicato a Dylan. Corbijn sceglie un taglio rapido, austero e minimale, in alcuni frangenti un pò ingenuo, poco visionario nello scavare la musica e il contesto, ma azzeccato nella rappresentazione della psiche curtisiana e dei suoi rapporti tribulati e sfuggenti col mondo intero. Se dovessi sceglierne la parte migliore, opterei per il finale, sequenza conclusiva compresa.
"Control" non è un film rock e non tratta Ian Curtis come un mito, lo divenne dopo. E'uno sfumato susseguirsi di alienazioni e solitudine. La storia di un ragazzo per cui nessuna cura fu possibile.